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PRECISIAMO
Di: Khadigia Moretti

Il Messaggero dell’Islàm, quando ancora aveva veste tipografica, pubblicò un articolo uscito dalla penna di Khadigia, che qui di seguito riportiamo integralmente, perché in esso emerge la notevole caratura della personalità islamica di Paola Moretti, la “prima donna” del Centro Islamico e non soltanto in senso cronologico. Eccolo.

L’Unità ha dato spazio-nell’inserto MILANO-LOMBARDIA del 27 Agosto 85 alla notizia della celebrazione della Festa del Sacrificio. Pubblichiamo l’articolo e lo corrediamo con alcune osservazioni ed alcune precisazioni della sorella Khadìgia, intervistata dalla cronista dell’Unità.

In primo luogo, non possiamo non complimentarci con l’autore del titolo del trafiletto. È veramente bello: «Nostalgia per una moschea alla grande festa islamica». Indovinatissimo.
Molto intelligente, poi, la scelta tra le numerose fo­tografie scattate dal foto-reporter, proprio di quella fotografia che accompagna il trafiletto.
Nella parte superiore c’è 1’arazzo, nel quale ci sono i tre luoghi santi dell’Islàm. La Sacra Moschea della Mecca, la Cupola Verde della Moschea del Profeta, a Medina ed in mezzo la Cu­pola della Roccia, che si trova ad El-Qùds, nel cuore della Palestina occupata, costituiscono lo sfondo su cui compaiono l’arabo (semita) in costume tradizio­nale e l’europeo (ariano), in maniche di camicia. E un’immagine che dà l’idea precisa del potere unificante dell’Islàm, nel quale non c’è spazio per la discriminazione razziale, poiché tutti gli uomini sono fratelli in Adamo, che Iddio creò dalla polvere. Disse il Profeta, che Iddio lo benedica e l’abbia in gloria: «Un bianco non è superiore ad un nero, né un arabo è superiore ad uno straniero, e viceversa, se non nella timoratezza!» E dopo questi rilievi positivi dobbiamo fare alcune precisazioni: Il nome dell’Amìr del Centro è ALI ABU SHWAIMA e non «ALI SHAIMA» come riportato nel testo. Il sacrificio: «La cerimonia - dice il testo - avrebbe dovuto concludersi, secondo il rituale islàmico, col sacrificio di un montone, operazione resa però impossibile dalla mancanza di una Moschea». Dobbiamo precisare che non esiste nel rituale isla­mico il sacrificio di un montone nella Moschea: Il lettore che non sappia come effettivamente stiano le cose, leggendo il pezzo di cui sopra, viene indotto a credere, in base al tenore letterale del testo, che nell’Islàm ci sia un rituale sacrificale, la cui sede è la Moschea. Ciò non è assolutamente corrispondente al vero e l’immolazione delle vittime sacrificali (montone, agnello, vitello, cammello), avviene sempre fuori dalla moschea. Quindi non è stata la mancanza della Moschea ad impedire il sacrificio del montone con cui avrebbe dovuto concludersi il rituale. Il sacrificio del montone che i fedeli musulmani immolano il giorno 10° del mese di Zul-Hìggiah è la commemorazione del sacrificio del montone immolato da Abramo, per ordine di Dio, in sostituzione del sacrificio di Ismaele, la cui immolazione Iddio aveva chiesto ad Abramo, per mettere alla prova la autenticità della sua fede. Ismaele non venne sacrificato. Al suo posto venne sacrificato il montone che Iddio fece trovare ad Abramo con le corna impigliate in un cespuglio sul luogo del Sacrificio, che era Mina, nei pressi della Mec­ca e non il Monte Moriah a Gerusalemme! Il punto chiave dell’articolo, scritto da una donna (si­curamente di cultura laica) è il finale. Si chiede l’articolista: «E le donne infagottate nei loro abiti lunghi fino ai piedi?». Vogliamo sottolineare una cosa: il verbo «infagottare» e la voce verbale «infagottato» ricorre imman­cabilmente tutte le volte che si parla dell’abito lungo della donna musulmana. «Infagottarsi» significa «vestirsi in modo sgraziato». La donna musulmana veste in modo sgraziato? Anzi, la foggia dell’abito islamico è tutt’altro che sgraziata. Esso dona molto alla donna, sia essa bella, sia essa poco attraente. abito lungo è segno di signorilità e di eleganza; accentua il fascino femminile e ne spiritualizza i richiami sessuali, liberandoli dagli stimoli animaleschi e dalla componente materialistica. Quando, poi esso è il distintivo di una raggiunta consapevolezza islamica, indica che la persona che lo indossa si trova in uno stato di grazia e di benessere fisico e spirituale (il volto sereno e due grandi occhi neri), che tutto l’oro del mondo non basterebbe a comprarlo. Altro che «vestirsi in modo sgraziato»! Questa definizione va bene ed anzi va benissimo a certe «mode» sconce ed orripilanti che offendono il buon gusto prima che il senso del pudore che ogni donna, per il carattere sacrale del suo ruolo esistenziale, dovrebbe avere. Si vedono, purtroppo, in circolazione certe donne che hanno perduto, speriamo non in modo irreversibile, quello che venne chiamato «l’eterno femminino» e nel modo spudorato di vestire portano il distintivo della loro degradazione fisica e morale. Altro che fagotto! Slancia la donna bassa e rotondetta e conferisce im­ponenza e maestosità alla donna alta e magra. L’abito lungo musulmano è espressione di grazia e dà grazia alla donna.
Questi sono soltanto spunti per una riflessione spassionata. È assurdo pensare che un mezzo di infor­mazione di massa faccia, per così dire, propaganda ad un «modo di pensare e di agire» diverso da quel­lo dell’ideologia di cui esso è organo. È naturale che non sia così! Quindi nel reportage dell’intervista rilasciata da «Kadige» non c’è se non ciò che può essere scritto sulle pagine dell’Unità. Quello che Khadigia ha spiegato è che “le donne musulmane non lavorano - come regola - fuori dell’ambito loro assegnato dall’lslàm, perché «lavorare» fuori dall’ambito assegnato loro dall’Islàm è contrario alla dignità della donna ed è violenza alla femminilità, intesa nel senso «oggettivo» della parola. Quando Khadìgia afferma che «la donna musulmana non è schiava dell’uomo» viene affermata una verità sostanziale dell’Islàm, perché il principio fondamentale dell’Islàm è che «nessuno ha diritto di essere padrone dell’uomo (e della donna) tranne Iddio». E dice la verità Khadìgia quando dice: «Vivete peg­gio voi, donne occidentali!». Non è forse vero che tutti i sistemi di vita, in Euro­pa, Occidentale ed Orientale, sono sistemi che si fondano sul dominio dell’uomo sull’uomo (e sulla donna)? È vero! La condizione della donna musulmana, che è serva soltanto di Dio, è certamente superiore alla condizione femminile della donna non musulmana che, le piaccia o no, è sempre in condizione di subalternità all’interno dell’ordine fissato dal potere maschilista. E la frase ironizzante di chiusura? All’interno del micro-mondo islamico che è la famiglia, la donna è libera di organizzarsi la propria attività, come vuole! Solo quando, per un motivo qualsiasi, essa si trova in condizioni di non poter svolgere le attività che ad essa competono nella divisione dei compiti e dei ruoli, all’esecuzione di essa è chiamato, in via sussidiaria il marito... anche a lavare i piatti!
Khadìgia Moretti
P.S. Grazie a Dio, mio marito, in otto anni di matrimonio, i piatti non li ha mai lavati! Questo articolo, da me scritto in terza persona, non l’ho scritto per evitare la bastonatura maritale! E se qualcuno avrà l’ardire di pensare al brocardo dell’excusatio non petita ... ricordo che ogni regola ha le sue eccezioni.
Viva le donne Musulmane!

N.° 213

Ramadàn 1440
Maggio 2019

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